© marcello carlotti – 2015
Se vivessimo nel migliore dei mondi umani possibili, la cooperazione e la definizione di ruoli in vista di obiettivi condivisi sarebbero due automatismi naturali ai quali rinunceremmo solo a seguito di fondate ragioni. Tuttavia, poiché viviamo nel mondo postmoderno in cui viviamo, la sinergia creativa è l’eccezione ad una regola che, a parole, tutti definiamo negativa: l’individualismo predatorio di stampo consumistico. E così, dato che tutti sappiamo come va il mondo, alla fine, chi più chi meno accettiamo nei fatti il presupposto di un paradigma che peraltro, perseguendo una logica tanto folle da risultare anche un po’ stupida, consuma più di quanto crea, e butta via gran parte di quel che produce. Per chi non si accontenta di ammettere che il nostro fallimento sia rappresentato dal fatto che, grazie ai nostri rifiuti plastici, è spuntata in mezzo all’Oceano Pacifico la seconda isola più grande del pianeta, due dati aggiuntivi dovrebbero aiutare anche i più cinici e pragmatici a comprendere meglio in che mondo viviamo, e quali le prospettive a medio lungo termine.
Infatti, mentre gli uomini di mondo cercano di destreggiarsi nella variante 2.0 di homo homini lupus, adattandogli addosso il sistema capitalista nella sua variante più aggressiva della speculazione finanziaria, alcune avanguardie si rendono conto che le cose non potranno andare avanti così ancora per molto, con l’essere umano che abita un pianeta da cui ogni anno prende più di quanto esso possa produrre.
Nel 1987, è stato istituito un interessante indice, quello dell’Earth Overshoot Day. Sulla base di un calcolo che mette in rapporto le risorse totali che la Terra ha a disposizione ogni anno con il consumo delle medesime da parte della popolazione mondiale, si intendeva capire se il rapporto fra esseri umani e pianeta terra fosse armonioso. Quello che è emerso è che il giorno del superamento è costantemente in calo dal 1987 ad oggi. Nel 1987, la giornata del superamento era il 19 dicembre, nel 2015 la lancetta si è fermata al 13 agosto. Sarà pur vero che la terra ha avuto parecchie centinaia di milioni di anni per fare scorte prima della nostra rivoluzione industriale, tuttavia le scorte non durano in eterno.
D’altro canto, e qui siamo al secondo dato interessante anche per i cinici e gli speculatori, nel 2008 il ricercatore Stuart Tristam ha fatto una interessante scoperta: ogni anno gli esseri umani sfruttano la terra per produrre cibo per circa 10 miliardi di persone, pur essendo la popolazione mondiale di circa 7. Contemporaneamente, 2 miliardi di esseri umani sono in sovrappeso e 2 miliardi di esseri umani patiscono la fame, e derrate alimentari per sfamare circa 3 miliardi di persone vengono buttate.
Mi rivolgo a me stesso ma anche a tutti voi, specie ai cinici, pensate che le cose possano continuare così ancora per molto?
Certo, vivendo in Sardegna, dove un sano e diffuso tessuto imprenditoriale è praticamente inesistente, la visibilità internazionale scarsa, e la natura, pare, ancora abbastanza selvaggia e immacolata, cosa possiamo fare?
Vivi e lascia vivere, e nel far ciò accontentati.
Sarebbero consigli utili e pratici se la Sardegna fosse realmente isolata dal resto del mondo e avesse una economia della sussistenza talmente autonoma e autarchica da poter fare a meno degli altri. Tuttavia, a parte il fatto che importiamo l’80% del cibo che mangiamo e il fatto di essere Kentu concasa e Kentu berritasa, l’un contro l’altro di invidia armati, la questione ha due risvolti ulteriori da non sottovalutare: in primis, ogni anno circa 10mila giovani (ma anche meno giovani) migrano, e l’OCSE dice che, a meno che non si inverta il trend, fra 20 anni la Sardegna avrà 300 mila unità meno di quelle attuali – con una età media considerevolmente più alta di quella attuale che è già alta; in secundis, noi potremmo anche scordarci del resto del mondo, ma il resto del mondo non si scorda di noi come dimostrano le basi militari allocate in Sardegna, le raffinerie, le vocazioni a trivellare e, dulcis in fundo, la proposta di usare il sottosuolo dell’isola per allocare scorie radioattive.
A questo dovrebbe assommarsi il fatto che importiamo la gran parte dell’energia che usiamo, sebbene esportiamo la quasi totalità di quella che produciamo e, sebbene si raffinino in Sardegna gran parte della benzina e del gasolio, li mandiamo prima a Roma per poi riacquistarli ad un prezzo superiore al resto d’Italia.
Tolta una minoranza degna di essere definita casta, in Sardegna normalmente si cerca di sopravvivere lasciando vivere, e chinando molto la testa, specie in tempi di assistenzialismo ridotto.
Quando vivevo in Israele, il mio capo, Marcelo Dascal, mi diceva spesso che noi sardi non ci capiva. Avevamo la fortuna di avere un’isola tutta nostra (un’isola ben più grande del fazzoletto di terra che laggiù israeliani e palestinesi si disputano con armi e bombe), di avere un clima favorevole per 9-10 mesi all’anno, cibo di prima qualità (lui adorava la bottarga che, nonostante i miei sforzi, si ostinava a chiamare bottanga), montagne, boschi, fiumi e, ovviamente, il mare. Sopratutto era colpito dai giganti di Monti Prama (che mentre io stavo laggiù erano chiusi a Li Punti), la Ziqqurrat di Monte d’Accoddi, i nuraghe e la commistione di stili. A Cagliari visitammo insieme il Castello e potei fargli vedere da lontano la necropoli fenicio-punica di Tuvixeddu che, all’epoca, era al centro di una controversia fra un imprenditore edile e il governatore della Regione.
Una notte, alle 3 del mattino, mentre sbobinavo una intervista realizzata con Itamar Even-Zohar, mi squillò il cellulare. A quell’ora sul mio numero israeliano poteva essere solo una persona: era Dascal, che dormiva notoriamente ancora meno di quanto dormissi io. Dato che parlare con lui era sempre un piacere e che non mi chiamava mai senza una fondata ragione, andai a rispondere. Cosa sarà successo di così importante per spingerlo a chiamarmi a quest’ora?
Se ci fosse qualche bombardamento in corso, avrei sentito l’allarme suonare. Non mi diede tempo di chiedergli nulla, perché appena risposi mi disse che ci stava pensando da un paio di giorni e che forse aveva capito cosa non funziona in Sardegna. Come ogni tanto ci capitava, mi diede appuntamento a metà strada, per farci una biciclettata notturna. Io, sardo-italiano, vivevo al centro di Tel Aviv nel quartiere degli artisti israeliani, lui, ebreo-brasiliano, viveva nel cuore del comune arabo di Jaffo. Finivamo per incontrarci sempre all’altezza del David Intercontinental Hotel, nei pressi di uno scavo archeologico. Decidevamo poi dove andare e mentre pedalavamo ci capitava di parlare di lavoro, ricerca e progetti. Quella notte parlammo di Sardegna. Sperando di non far torto a Dascal, cercherò di riassumere il suo pensiero, che necessita di un piccolo preambolo.
Marcelo Dascal, filosofo pragmatista fra i maggiori studiosi al mondo di Leibniz, autore di molti saggi ed editor della Benjamin, non è nato in Israele. Figlio di ebrei rumeni fuggiti in Brasile in piena epoca nazista, Dascal è nato nel 1940 a Sao Paulo, dove a 23 anni aveva conseguito una laurea in ingegneria elettronica. Nel frattempo si era fidanzato con una ragazza uruguaiana, Varda, che studiava pedagogia e voleva specializzarsi. Come nella sua natura, Marcelo disse a Varda che c’era un solo posto dove valesse la pena andare a specializzarsi: a Parigi dove insegnava Jean Piaget. Fu così che attraversarono l’Atlantico. Dato che aveva del tempo libero e che da sempre l’aveva attratto anche la filosofia, e visto che a Parigi era entrato in contatto con Gilles-Gaston Granger, Dascal iniziò un secondo curriculum di studi.
Nel 1966, completati gli studi in filosofia, la famiglia Dascal parte con i soldi contati alla volta di Israele, dove ciascuno avrebbe iniziato un dottorato. Dato che i soldi erano veramente contati, avendo venduto tutto i loro possessi parigini, acquistano un vespa e cominciano il viaggio, finito un paio di mesi dopo quando, al confine col Libano, con le tasche totalmente vuote, vendettero la vespa ad un doganiere per raggiungere Tel Aviv in autobus. Sentivamo che Israele era la nostra patria, e non potevamo lasciarla in mano a chi credeva che tutto potesse risolversi con fucili e bombe e sottrazione di territori. Qui ci doveva essere spazio per tutti, spazio vitale, per lavorare e dialogare.
Il fatto che un simile intellettuale, temuto dai suoi connazionali e stimato dagli arabi e dai palestinesi, fosse il mio capo era per me già sufficiente motivo di gratificazione. Ma il fatto che mi avesse chiamato nel cuore della notte per parlare della mia isola e di condividere con me le sue riflessioni in merito, mi sorprese allora e continua ancor oggi a sorprendermi.
Secondo Dascal il problema di fondo era molto semplice: probabilmente le cose in Sardegna non funzionavano come avrebbero potuto e dovuto perché le classi dirigenti, con la compiacenza di buona parte della classe accademica, non erano state evidentemente capaci di declinare in chiave locale il paradigma del capitalismo occidentale nel quale, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci trovammo forzosamente catapultati a vivere. Non si può cercare di fare gli americani, senza essere americani, garantiti da tutte le garanzie che garantiscono l’élite e l’upper class di quel paese. Inoltre, mentre negli Stati Uniti l’individualismo si abbina alla cultura del merito, ed è concessa una vertiginosa mobilità sociale, per quel che poteva giudicare lui, in Italia ed in Sardegna, al familismo allargato (una dinamica sociale che non prevede la meritocrazia), si sostituì in modo improprio una forma che ribattezzammo quella notte come individualismo nepotistico. Infatti questo, a differenza della strategia delle clientele (nate a Roma per gestire il potere ed evolute in fase medievale) che prevedevano per il dominus (o il feudatario) una costante verifica dell’utilità e della fedeltà dei clientes (o dei vassalli), non aveva nessuna forma di utilitarismo razionale alla sua base, in quanto i beneficiari odierni, prescindendo dalle loro reali capacità, venivano per lo più allocati o in posti pubblici (causando un ingorgo di incompetenze nella erogazione dei servizi, e quindi un danno collaterale per tutti) o in aziende private (causando il tracollo delle medesime: se non vuoi che fallisca, non puoi affidare una azienda che funziona ad un tuo figlio prescindendo dalle sue capacità di gestirla).
Se l’individualismo nepotistico offriva una chiave ermeneutica sufficiente, ne avremmo dovuto indagare l’eziologia e la fenomenologia, ovvero le origini e le modalità di manifestazione applicata. Tuttavia, mi disse, dato che esplorare questi elementi borderline richiede molte energie, sarà il caso di fermarci a fare colazione.
Mentre pedalavamo in direzione del nostro solito bar, per sederci al solito tavolo e mangiare l’ottimo humus, riflettei in silenzio se l’ossimoro del nepotismo individualistico potesse spiegare tutte le assurdità, le ipocrisie e la schizofrenia (che, se l’avesse studiata, Gregory Bateson avrebbe probabilmente definito “schismogenesi stocastica”) che, fin dalla mia nascita, avevo osservato in Sardegna. Di colpò ebbi una illuminazione: a differenza degli israeliani, che si scrivono la loro storia, in Sardegna questo non accade e, eccezione fatta per alcuni addetti ai lavori, la vulgata tratta le cose di Sardegna in modo eufemisticamente approssimativo.
Una volta terminato l’humus (l’unica cosa che Dascal preferisse alla pasta con peperoncino e bottanga), mi disse di aiutarlo a capire meglio alcune cose storiche e contemporanee. Su tutte era interessato a questioni di pragmatismo linguistico e a come queste si declinassero sulla situazione indipendentista. Per lui cultura e politica sono da sempre due facce della stessa medaglia. Del resto, come diceva Wittgenstein, conoscere una lingua significa conoscere una cultura, pertanto una comunità che non conosce la sua lingua difficilmente potrà conoscere la sua cultura e lottare per la sua autodeterminazione. Gli dissi che la cosa da noi non era così semplice, dato che in Sardegna non è mai esistita una lingua indigena di koiné che si fosse tramandata dai nuragici fino a noi, sempre ammesso che i nuragici fossero un unico popolo e non una confederazione di tribù.
Ma come, mi disse, e il sardo allora cosa è? Il sardo è una lingua neolatina, quindi al pari di tutte le altre lingue romanze deriva dal latino, ovvero la lingua dei romani che colonizzarono la Sardegna.
Ma scusa tu non mi hai detto che in Sardegna ci sono 3 o 4 partiti (oggi che scrivo sono saliti a 13) indipendentisti che basano le loro istanze sulla discendenza dalla cultura nuragica e sulla lingua sarda? Sarebbe come se i discendenti di Toro Seduto rivendicassero la loro terra ed autonomia in nome dei totem e della lingua inglese!!? Ma non ha senso!
In effetti, dal mio punto di vista non ne ha nessuno, risposi. Anche visto e considerato che quasi nessuno sa o ricorda cosa accadde in Sardegna nel biennio 177-176 avanti Cristo.
Perché? – mi chiese Dascal – cosa accadde in quei due anni?
Qualche decennio dopo l’insurrezione del 215 a. C. capitanata da Amsicora (si è trattato forse della più importante insurrezione della storia della Sardegna, tanto che i romani dovettero annegarla in un vero e proprio bagno di sangue, infliggendo alla coalizione sardopunica oltre 15 mila morti), nel biennio 177-176 a. C. per sedare la ribellione dei Balari e degli Iliesi, il Senato inviò in Sardegna il console Tiberio Sempronio Gracco. In quei due anni il console, al comando di circa 11 mila fanti e 1500 cavalieri, sgominò gli insorti, spazzandoli letteralmente via. A voler credere a quanto documenta Tito Livio citando l’iscrizione nel tempio della dea Mater Matuta, a Roma, il danno per la popolazione sarda fu immenso. Infatti, i romani vincitori esposero una lapide celebrativa che diceva: «Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.»
Se 80.000 uomini, fra uccisi e catturati, sarebbero a tutt’oggi una cifra spaventosa e drammatica (per intenderci: durante tutto il corso della prima Guerra Mondiale morirono 13 mila sardi), il dato esplode in tutta la sua agghiacciante prepotenza non appena lo storicizziamo. Infatti, si calcola che in epoca romana la Sardegna fosse abitata da circa 300.000 unità. Se l’epigrafe raccontava il vero, i Romani avevano ucciso e deportato la quasi totalità dei maschi adulti che abitavano l’isola.
Appena terminai il racconto, Dascal rimase a riflettere per qualche secondo. Poi mi disse che se veramente nessuno o quasi in Sardegna parla di questi fatti, allora la cosa può spiegarsi solo in termini di rimozione collettiva. Capita spesso, quando si subisce un colpo o uno shock tremendo, che la nostra mente, per proteggersi, nasconda a se stessa la realtà. In questo caso, al corpo sociale di un popolo evidentemente combattivo e fiero, i romani inflissero una ferita superiore a quella inflitta agli ebrei con la diaspora. È vero che gli ebrei vennero cacciati dalla loro patria, pur tuttavia le cellule di quel corpo sociale – le famiglie – poterono riaggregarsi facendo affidamento, nel loro avventurarsi per il mondo, sulle figure maschili e femminili. Al contrario, in Sardegna non vi fu diaspora, semplicemente si fece sparire dai meccanismi di trasmissione delle conoscenze la figura maschile, perché se la popolazione totale era di 300 mila unità, inclusi vecchi (sicuramente pochi) e bambini (sicuramente molti, come di norma nel passato), 80.000 maschi fra uccisi e deportati, rappresentavano praticamente l’intero corpus dell’universo maschile. Inoltre, dato che si trattava di guerrieri, furono sicuramente i più valorosi a morire. Pertanto, dopo quel vulnus, chi furono le figure maschili di riferimento per i bambini? Con tutta probabilità, le donne divennero centrali, ma quasi sicuramente, per i tanti orfani sardi, i legionari romani divennero eroi semidivini: avevano ucciso i loro padri guerrieri. Il fatto che non ci sia dibattito pubblico al riguardo e che, contemporaneamente, vi sia difficoltà a trovare unione anche nelle istanze indipendentiste potrebbe essere segnale di una sorta di sindrome di Stoccolma da parte di una intera cultura.
Dopo più di duemila anni?, chiesi io.
Beh, mi rispose Dascal, guardati attorno, qui sono oltre 100 anni che si combatte una guerra per una terra da cui i romani ci cacciarono 2000 anni fa. Il fatto che i sardi non conoscano la loro storia dimostra solo quanto in profondità è giunta la ferita inflitta dai romani, e 80-100 generazioni, se non si analizza a livello sociale un simile dramma collettivo, non servono a cancellarne le tracce. Adesso mi è più chiaro perché le dinamiche dominanti che mi hai raccontato ricordano i litigi dell’asilo, con gli agguati alle spalle, e il complesso di inferiorità commista a diffidenza verso chi viene da fuori. Se Jung avesse conosciuto la Sardegna, avrebbe trovato terreno interessante per testare le sue teorie sugli archetipi, l’inconscio collettivo e la rimozione.
Da quello scambio, proseguito fino a mezza mattina, sono passati molti anni eppure ogni tanto mi capita di ripensarci e risentire la voce di Dascal che parla di ferita collettiva mai analizzata. Ogni volta che ciò accade, mi chiedo cosa posso fare, nel mio piccolo, dinnanzi ad un fatto tanto più grande di me. Tutte le volte, risento la voce di quell’uomo dirmi con serenità che anche io, come lui quarantanni prima, avrei dovuto tornare a casa per fare la mia parte. Tuttavia, se accettavo un consiglio spassionato, anche alla luce di quello che era capitato a lui (che era tornato in Israele per evitare che finisse nelle mani dei guerrafondai), mi sarebbe egoisticamente convenuto rimanermene laggiù, a scrivere di antropologia e lavorare con lui.
Il tarlo, però, era partito.
Qualche mese dopo, senza nessuna sicurezza e con molte paure, comunicai a Marcelo che avevo deciso di accettare una borsa di ricerca e tornare nella mia isola.
Sua moglie Varda volle organizzare una cena di saluti. Durante tutta la sera Dascal rimase distaccato e taciturno. Sembrava assorto in un profondo dialogo interiore. Alla fine della serata, con sorpresa di tutti, disse che mi avrebbe accompagnato a casa in macchina dato che all’alba partivo. Facemmo il viaggio in macchina in silenzio, ma senza imbarazzi. Come non ci fosse bisogno di parole. Solo mentre aprivo lo sportello mi mise una mano sulla spalla e mi disse alcune frasi che mi si sono impresse nell’anima.
Muchacho - mi chiamava sempre così quando eravamo in contesti non ufficiali – ricordati che quelli che, per primi, aprono il varco, sono anche quelli che si fanno più male. Ma senza il loro impegno, talvolta sacrificio, l’essere umano vivrebbe ancora e soltanto nelle tenebre. Se poi sentirai che vorrai tornare da noi, sappi che qui, per te, la porta è aperta.
Per qualche istante, rimasi a pensare seduto con la portiera aperta. Poi gli dissi l’unica cosa, fra le tante che mi saltavano alla lingua, che mi parve sensata.
E lei perché alla fine è rimasto qui e non se ne è tornato in Brasile?, gli chiesi mentre finalmente scendevo dall’auto.
Perché questa è casa mia, mi rispose.
Lo guardai, entrambi assentimmo in silenzio e poi, mentre la sua macchina si allontanava, pensai a mia volta che anche io stavo tornando in Sardegna per la stessa ragione: era casa mia, ed ormai era ora di tornarci.
Mentre, dopo le ennesime 5 ore di estenuanti controlli antiterroristici, aspettavo di poter salire sul volo della Swissair che mi avrebbe riportato in Italia, pensavo al mio rientro in Sardegna come ad un tentativo di ritorno al valore.
Mi chiedevo come fosse possibile che, nonostante le guerre, le tensioni, gli attentati, etc. Israele potesse vivere di turismo tutto l’anno e la Sardegna no. Com’era possibile che ogni 5 minuti al Ben Gurion Airport atterrasse un aereo dai più reconditi angoli del pianeta, e che in Sardegna tre aeroporti facessero meno della metà degli scali di quell’unico aeroporto?
Sì, ok, Israele è meta del turismo religioso da tutto il pianeta – la natività a Betlemme, il Santo Sepolcro a Gerusalemme, il tempio di Davide realizzato da Salomone, il muro del pianto, la cittadella di Acri, etc. – ma la maggior parte dei turisti si recava in Israele per andare sul lungo mare di Tel Aviv, attraversare la via dell’incenso nel deserto del Negev, prendere il sole nella spiaggia di Eilat o fare i fanghi e respirare l’ossigeno del Mar Morto. Ma a dirla tutta non è che in Sardegna scarseggino gli elementi utili a lanciare un turismo culturale ed archeologico: una Ziqqurrat nei pressi di Sassari, oltre 9 mila nuraghe disseminati su tutto il territorio isolano, la più grande necropoli feniciopunica del Mediterraneo nel cuore di Cagliari, tombe dei giganti, Tharros, Nora, le più antiche statue giganti della cultura occidentale, un villaggio prenuragico interamente scavato nella roccia, castelli medievali, fortificazioni e bastioni piemontesi, la cultura de is Fassonis di Santa Giusta (che ritrovi miracolosamente identici qui, in Egitto e sul lago Titicaca), per non dire di flora e fauna, dell’assenza di animali velenosi e della presenza di oasi come quella di Molentargius dove, si dice, nidifichino e vivano oltre 30 mila fenicotteri e, pare, 5 pellicani. Questo, ovviamente, solo per iniziare. Ci sarebbe molto da dire su artigianato, musei etnografici, processi produttivi tradizionali, ed eccellenze in campo enogastronomico, insomma tali e tante cose da far impallidire – per diversità e qualità – la maggior parte delle mete turistiche del pianeta.
Mentre l’aereo rullava sulla pista, pensai alla prima volta che avevo fatto il Camino de Santiago. Quanto sarebbe stato interessante recuperare le case cantoniere disseminate sui 360 km e passa dell’Orientale Sarda e farne un cammino turistico. Di media, ogni 15-20km, i turisti avrebbero avuto un ostello dove riposarsi e ciascun ostello, oltre a dar loro da dormire, avrebbe potuto dar da mangiare e bere le specialità del posto. Chi ha fatto il Camino lo sa che la cosa veramente importante non è la meta, ma la scoperta dei luoghi e delle persone procedendo attraverso di essi con una velocità che permette un pieno contatto umano: a piedi, in bici o a cavallo. Certo, ci sarebbero voluti un sacco di soldi per rimettere a posto tutte quelle case abbandonate che avevo visto e censito qualche anno prima percorrendo la vecchia 125 in moto. Però, visto che era ancora notte e che stavo tornando a casa, sognare una cosa del genere, con degli ostelli concepiti come musei attivi e viventi del territorio a disposizione dei viaggiatori, mi sembrava un pensiero ben augurante.
Da quel viaggio, sono passati ormai alcuni anni, e tanta, tanta esperienza sul campo. Sento di poter dire oggi che inveritas rappresenta il primo germoglio di un investimento ed una scommessa. Esso è nato come un progetto più ampio dei meri documentari antropologici ed il suo fine è quello di cercare di creare connessioni fra aziende e realtà di eccellenza che non hanno paura di raccontare la loro verità antropologica. Anzi, che ritrovano in essa il loro fondamento esistenziale ed imprenditoriale.
Ispirandoci al linguaggio delle neuroscienze, abbiamo chiamato queste connessioni potenziali synapsis, perché – come detto – le synapsis sono alla base dell’intelligenza, di ogni intelligenza. Le synapsis che inveritas cerca di innescare possono realizzarsi o liberamente, o con la nostra regia professionale.
Nel primo caso, capita che le aziende – messe in connessione da inveritas – comincino a dialogare, cercando di comprendere se esistano fra loro margini sufficienti e necessari per realizzare nuovi progetti imprenditoriali, creando così nuova ricchezza: ciò che noi chiamiamo la creazione di valore a partire dai valori.
Oppure, con la consulenza professionale di inveritas, vengono sviluppati progetti orientati alla sinergia mediante il tribal networking prima, e la values lead organization e il values based budget poi. In questo secondo caso, inveritas assume il ruolo terzo di mediatore e regista attraverso consulenze ad hoc, mediando fra gli interessi particolari dei singoli, in prospettiva di un fine più ampio che abbia ricadute virtuose per il gruppo e per i singoli.
In entrambi i casi, sia quelli spontanei sia quelli professionali, è necessario partire dai documentari antropologici. Essi, infatti, costituiscono la base funzionale di una qualunque synapsis perché permettono ad una azienda (o ad un territorio) di scoprire (o riscoprire) il suo proprio valore intrinseco e reale, e stimolano l’attivazione di dinamiche virtuose fra aziende e territori, innescando una forma differente di conoscenza e, potenzialmente, di fiducia e consapevolezza.
Pertanto, lo scopo e la finalità strumentale di inveritas, in modo coerente alla sua mission e vision, è quello di creare una rete di reti di soggetti consapevoli. A noi, infatti, non interessano le persone e le aziende che pensano in termini singoli, e concepiscono solo il loro tornaconto personale, possibilmente con un profitto immediato.
Noi di inveritas riteniamo infatti che questo modello abbia dato (nel mondo in genere, ed in Sardegna in particolare) ampia e ridondante testimonianza della sua fallacia. Il cliente a cui noi ambiamo è un cliente responsabile e lungimirante, che ama il suo lavoro e vuole investire nel suo progetto professionale e che, per questo, vuole mettersi in condizioni di poterlo sviluppare al meglio negli anni, fronteggiando le sfide che la globalizzazione e il progresso della tecnologia digitale impongono con ritmi sempre più serrati. Per questo, il nostro cliente ideale è colui che ritiene necessario, anzitutto per se stesso, fare rete e che, pertanto, crede nell’importanza della sinergia, e nella necessità di implementare strategie produttive e di mercato non solo etiche ma anche ecologiche, prestando attenzione quindi al territorio ed all’ambiente (naturale ma anche culturale) nei quali opera.
Per fare alcuni esempi concreti: a Serramanna, paese dove sono cresciuto e che rappresenta il nostro modello pilota, abbiamo cominciato ad adoperarci per fare gruppo e, dopo qualche mese, ci siamo ritrovati nel Padiglione Kip di Expo2015 a parlare dell’importanza di sviluppare progetti comuni per rilanciare i territori e le loro imprese. Con Envision Gallura abbiamo visto in che modo un gruppo di imprenditori possa collaborare per creare un prodotto nuovo (come ad esempio una serie innovativa di percorsi tematici volti alla promozione delle eccellenze di uno specifico territorio).
Contemporaneamente, possono nascere altre forme di contatto cooperativo e business comunitario. Un imprenditore alberghiero, un architetto esperto di domotica e uno studio di automazione, ad esempio, hanno cominciato a discutere in merito ad un progetto nuovo e, a mio giudizio, dirompente: realizzare in Sardegna, in uno spazio naturale lontano dal mare, un albergo domotico con 4 suites capaci di autoprodurre l’energia che necessita loro. Un consorzio di produttori di cibo potrebbe iniziare un iter per sviluppare una più razionale automazione di alcuni dei loro processi, tali da permettere di migliorare gli standard qualitativi con cui competere su mercati internazionali di eccellenza. Lo chef Marcello Putzu ed inveritas stanno attualmente creando delle innovative rotte del gusto volte a promuovere i prodotti ed i territori della Sardegna, realizzando al contempo delle nuove ricette, basate solo sui prodotti locali (vere e proprie ricette a kmZero).
In tutta onestà, non ho idea, mentre scrivo queste righe, quanti di questi progetti si concretizzeranno e andranno avanti nel tempo. Sicuramente non tutti. E fra quelli che si concretizzeranno, nessuno di essi alla fine sarà fedele a come originariamente pensato. Non sarebbe nella natura delle cose. Tuttavia, quello che reputo fondamentale è aver cominciato a mostrare la concreta possibilità di mettere in contatto delle aziende che, senza un centesimo di soldi pubblici, hanno iniziato a investire in proprio per cooperare fra loro, sia sui territori di appartenenza, sia su scala regionale, mostrando che la sinergia può essere qualcosa di possibile quando viene stimolata dal basso (bottom-up) e non imposta dall’alto (top-down). Questo rientra nel cambio di paradigma a cui inveritas ambisce. Un passaggio cioè da un modello orientato al mero arricchimento (una primordiale gara all’accumulazione), ad uno basato, incentrato ed orientato alla creazione di ricchezza. Sembra un gioco di parole, ma non lo è.
L’arricchimento può infatti essere un semplice passaggio di ricchezza da uno (o molti) verso un altro (o pochi). La creazione di ricchezza significa apprendere a valorizzare quel che si ha e realizzare, nel contempo, un sistema che crei ricchezza laddove prima ce n’era meno o non ce n’era affatto. Questo secondo modello, a nostro avviso, è l’unico che valga la pena provare a perseguire in Sardegna, anche perché è il solo che consente di rimettere l’essere umano e la comunità al centro dell’economia, creando un sistema imprenditoriale solido, responsabile, condiviso e in armonia col territorio.
Se in qualche modo il lavoro da noi intrapreso dovesse contribuire a mantenere in vita tutti gli imprenditori visionari (i Kentu locos) riducendo al contempo il numero delle berritasa (pocas berritasa), allora l’impegno e le energie che ciascuno di noi ha profuso nel perseguire il progetto inveritas avrà raggiunto gli obiettivi prefissi da chi ha fondato inveritas e condivisi da quanti hanno scelto di collaborare con noi.
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